Sopravvivere alla quarantena
Sopravvivere alla quarantena. Mantenere la propria sanità mentale. Non impazzire, trascinando con sé i propri compagni di isolamento. Superare la lontananza da chi siamo stati separati, fingendo che anche solo una videochiamata possa sostituire la vicinanza fisica ed emotiva. Essere forti anche per loro, millantando che in fondo non ci sia proprio nulla di strano. Provare addirittura a far fruttare questi giorni di isolamento, dedicandosi a ciò che non si è mai avuto il tempo di fare. Le missioni che ci poniamo quotidianamente in questo carcere dorato, dove nonostante tutto non ci manca niente: fatta eccezione per una data di rilascio, come per chi sta ai domiciliari. Ed è proprio questo il punto: ci manca un timbro con la data di scadenza.
La trafila casa, lavoro, impegni, traffico, casa a cui ci siamo condannati, più o meno volontariamente, ce l’aveva una data, se non molte di più, lì pronte a susseguirsi. Un viaggio, un appuntamento, una festa, una maledetta serata in cui sfogare tutta la frustrazione dei giorni di privazione. Una Pasqua dopo la quaresima. La notte dello sfogo dopo un anno a vivere secondo le convenzioni sociali. E invece noi niente. Un periodo che è l’indefinito personificato, un tempo che si espande a macchia d’olio aspettando un nuovo decreto. Una parentesi aperta, composta però da tante realtà piccole, iperdefinite, insignificanti. Le pareti, i pasti, le nostre cose disseminate per casa. “La roba” la chiamava Verga, che ora però ci annoia, ci disgusta, ci ripugna. E sempre quella. Nessun orgoglio nell’aver accumulato tutti quei frammenti del mondo, quando di quel posto la fuori non hai più che una semplice immagine sbiadita. Eppure, se c’è un rimedio che sto scoprendo, man mano che questo buco nero si espande, è che nelle restrizioni la salvezza sono proprio altre restrizioni.
Per anni mi sono trascinato al lavoro bestemmiando, maledicendo chi rallentava la mia corsa in macchina, barcollando su dalle scale fino a non poter far altro che entrare e subendo la quotidianità con quanto più stoicismo e naturalezza mi riuscissero. Quasi mai mi ha sfiorato l’idea che potesse esserci un’altra vita, dove le giornate non sono così e in cui non c’è scritto da nessuna parte che se lo fai per un determinato tempo, beh forse allora potrai avere quelle maledette valvole di sfogo per riappropriarti di quello che sei. Un permesso, il weekend, le ferie. Eppure evidentemente era proprio così. Vuoi o non vuoi, dopo due settimane mi ritrovo chiuso in casa. Lasciamo stare il perché e il percome. Nessuno mi chiede perché non vado al lavoro. Lasciamo stare che lo faccio da casa. Nessuno mi chiede perché non sto uscendo. Beh, grazie al cazzo, sono tutti a casa. Ecco, proprio così: siamo tutti a casa. Dunque è vero, non era scritto in nessuna legge della natura che tutto dovesse andare avanti così per sempre: e già questa è una bella sveglia. Quasi quasi proverò a dare un peso diverso al mio tempo, quando sarà tutto finito. Ma per davvero, questa volta. A prenderlo in mano, a scegliere davvero come investirlo. A quanto pare ne ho la possibilità. E non significa che sto capendo il valore di una cosa solo perché l’ho persa, o non solo. Vuol dire che mi sono spaccato la testa per imparare a destreggiarmi tra le infinite regole di un gioco, solo che di punto in bianco hanno sospeso la partita. Ora sono bloccato negli spogliatoi.
Nel frattempo faccio quello che ho sempre fatto, e funziona! Certo, sono comunque costretto dentro casa, ma quando ho fortuna il sole si avventura fino alla finestra del salotto alle 9 del mattino. Dura appena mezz’ora, ma io mi metto in posizione e lascio che mi colpisca, fino a quando il caldo diventa piacevole per le ossa e la luce insopportabile per gli occhi, nascondendomi le pareti e le solite maledette cose disseminate per casa. E se pure mi dimentico di farlo, o magari sono troppo pigro per svegliarmi a quell’ora, di certo non posso perdermi il momento in cui raggiunge la finestra della mia camera, alle 3 e mezza di pomeriggio. Non devo nemmeno smettere di lavorare o spostarmi. E’ sufficiente che io apra le finestre e la tenda, perché il buio e la noia della stanza si trasformino in un occhio di bue, come quelli dei teatri. Quell’enorme raggio che colpisce il protagonista sul palcoscenico e allo stesso tempo lascia al buio tutto quello che lo circonda, come se improvvisamente non contasse più niente. Non sono mai io ad andare a cercarlo. Ecco. E poi ci sono vizi. Ogni vita deve averne qualcuno. Anche questa, che è in miniatura, ne ha un paio: anche quelli in miniatura. Talmente in miniatura che si trasformano in virtù, o poco ci manca. Per farla breve, bevo. Un bicchiere di vino a pranzo e uno a cena. Mai uno di più, ma nemmeno uno di meno se è per quello. Il che, dicono i medici, fa anche bene. Alla sera, invece, quando tutti sono andati a dormire, e la smettono di affacciarsi timorosi ai propri terrazzi, io esco sul mio e mi fumo una sigaretta. Una sola, è chiaro. Il che, considerando che prima erano molte di più è quasi una virtù. Niente mi impedirebbe di aggiungerne una seconda, se solo mi andasse, oppure di trasformare quel bicchiere di ottimo Lambrusco in due calici belli abbondanti. Del resto la bottiglia è proprio lì, sul tavolo.
Se non lo faccio è perché tutto questo schifo mi ha insegnato che ho bisogno di una data di scadenza, come succedeva prima. Così il lavoro, la noia, le pareti, e la solitudine si interrompono proprio come allora, con queste piccole valvole di sfogo momentanee. Godibili, ma evanescenti quanto basta da farmi tornare alla routine. La mia notte dello sfogo, dopo un anno a vivere secondo le convenzioni sociali. Il mio carnevale, prima della quaresima.