Quando il politically correct riscrive la storia
Whitewashing e blackwashing. Due termini cinematografici fino a poco tempo fa poco conosciuti e utilizzati e che oggi sono all’ordine del giorno. Due modi di dire che stanno per “sbiancare” o “annerire” una pellicola o una serie tv. Sostituire, insomma, personaggi storicamente bianchi o viceversa afroamericani con degli attori di origine diversa, in nome del politically correct. Tra gli esempi più celebri di questo fenomeno, nelle ultime settimane, si è affermato quello della serie tv Lupin di Netflix, in cui un giovane ispirato dal proverbiale ladro gentiluomo francese, creato dalla penna di Maurice Leblanc, è interpretato da Omar Sy, popolare attore franco-senegalese. Discorso molto simile per Bridgerton, una produzione che racconta i mille intrighi della corte inglese nell’età vittoriana e in cui diversi cortigiani, nonché la stessa regina, appartengono alla comunità afroamericana. Due esempi, insomma, che sfidano la storia e la letteratura in nome di una rappresentazione più equa delle diverse appartenenze etniche e culturali.
Complice il successo di entrambe le serie, in molti hanno parlato di questo fenomeno, compreso Renato Franco sul Corriere della Sera in Omar Sy è un Lupin nero. La storia stravolta dal politicamente corretto. E in effetti, l’effetto straniamento che si prova anche solo guardando qualche scena dei due telefilm è davvero forte. Le due trovate mi sono sembrate personalmente una forzatura. E in particolare la rappresentazione di una nobiltà vittoriana multiculturale appare davvero anacronistica.
Viene dunque da chiedersi il perché si sia arrivati a tanto. Ed ecco le due spiegazioni che sempre più spesso sento dare di questo fenomeno. Una rappresentazione sullo schermo più fedele alla letteratura o alla storia in serie come Lupin o Bridgerton…
-Propone un modello deviante ai telespettatori
-Offende le minoranze che non compaiono
A ben vedere però, credere che Bridgerton con soli attori britannici e Lupin con un protagonista bianco sarebbero diseducativi è un altro buco nell’acqua. Già dagli anni ’30 la teoria cognitiva ipodermica è stata smentita. In poche parole vedere un telefilm non basta a rendermi una persona razzista. Tanto meno, aggiungerei, se è accurato storicamente.
Certo, quando si parla di serie tv o film ambientati ai giorni nostri, l’effetto potrebbe essere più potente. Ecco perché, semmai, oggi abbiamo bisogno di nuovi personaggi iconici – afroameticani, asiatici, nativi americani o latini - a cui poterci affezionare e da affiancare a quelli che già abbiamo. Raccontare la storia in modo sbagliato, al contrario, è pericoloso.
D’altro canto, se una serie come Bridgerton offendesse genuinamente le minoranze che non compaiono, allora alla corte vittoriana degli Hannover si vedrebbero anche nobili asiatici, nativi americani o latini. E invece questo non avviene, tanto meno in altre produzioni. L’unico caso in cui mi risulta sia avvenuto qualcosa di simile è la presenza di Lucy Liu che interpreta il dott. Watson – l’aiutante di Sherlock Holmes - in Elementary. Insomma, anche la potenza con cui le diverse minoranze si fanno sentire nel chiedere un cambiamento nel cinema è diversa e variabile. E replica quelle discriminazioni che tanto critica nei vecchi film, dove compaiono solo bianchi.
La mia impressione è, ancora una volta, che il razzismo sia un problema reale e da combattere: anche in cinema e serie tv. E quasi tutti nella nostra società sono d’accordo su questo. Quello che ci differenzia, però, è lo zelo con cui intendiamo farlo. Come capire se un film sull’età vittoriana in cui i protagonisti sono tutti bianchi offende per davvero la nostra società o meno?
La sociologia ci può aiutare ad analizzare questo problema. Come capiamo cosa offende davvero la nostra società? Durkheim, ad esempio, ci dice che la società siamo noi. È sia interna che esterna a ciascuno dei suoi membri. È “l’insieme dei modi di agire, sentire e pensare condivisi dagli individui”. E questo determina anche il nostro senso morale. Sempre per Durkheim la coscienza collettiva è “l’Insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una società”. Insomma, ciò che è offensivo per la media, allora lo è per la nostra società. Sembra banale, ma è da questa considerazione che si parte per individuare i reati da punire o meno.
Se pensiamo alla storia del cinema, e all’industria delle serie di oggi, Whitewashing e Blackwashing, sono un’anomalia. La normalità, statisticamente - specie per serie storiche - è che siano accurate rispetto all’epoca che rappresentano. E per Durkheim ciò che è anomalo è tipico di due categorie: il deviante o il genio. Il primo è arretrato rispetto alla coscienza collettiva, il secondo è troppo avanzato. Il genio indica la via verso una nuova forma di coscienza collettiva, che forse un giorno diverrà la norma. E chi fa Whitewashing e Blackwashing lo fa proprio con questo spirito. Vuole che la parità “estrema” diventi la norma. Il problema è che lo fa riscrivendo la storia o la letteratura. E il revisionismo non è certo la forma di coscienza collettiva verso cui penso sia giusto andare. Opinione personale.
Eppure forse sta già succedendo. Le nuove norme dell’Academy degli Oscar (nell’immagine), ad esempio, impongono la presenza d’ufficio di un’equa rappresentanza della diversità. Dal 2024 per essere nominate come “miglior film”, le pellicole dovranno rispettare precisi criteri di rappresentazione. Anche quelli che raccontano realtà per nulla multiculturali, magari risalenti a decine o centinaia di anni fa. Qualche esempio? Il Padrino oggi, con ogni probabilità, non sarebbe premiabile. Parlava della comunità italo-americana, che però non rientra tra le minoranze elencate dall’Academy.