L’isola delle Rose - L’utopia della libertà senza forza

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L’Incredibile storia dell’Isola delle Rose (Sydney Sibilia, 2020) uscito poche settimane fa su Netflix colpisce già dal trailer, grazie alla sua semplicità. Costruire un’isola in mezzo all’Adriatico e dichiararla indipendente: questo il sogno di Giorgio Rosa, interpretato dal solito impeccabile Elio Germano, ma anche la sinossi del film. Pellicola sulla libertà, dunque. Sì, ma si fa presto a dire libertà. Strano concetto questo, perché in un’unica parola racchiude diverse piccole, ma enormi, sfumature diverse. Un elemento per nulla nuovo nel panorama cinematografico, da Papillon (Franklin J. Schaffner, 1973) a Into the Wild (Sean Penn, 2007), passando per Braveheart (Mel Gibson, 1995), ce n’è davvero per tutti i gusti. Ma se la loro era, in particolare, una libertà DA, quella dell’Insulo de la Rozoj (il nome dello stato in esperanto) è una libertà DI. Di esistere, fondamentalmente. Perché ciò che è mancato allo stato di Giorgio Rosa, anche nella realtà, è stato uno scopo più nobile: un obiettivo da realizzare che andasse oltre la propria esistenza. Eppure, anche da un punto di vista sociologico, si tratta di una vera e propria utopia. Se la storia degli stati è un continuo oscillare tra libertà e sicurezza, in cui nessuna delle due può mai venire del tutto meno, l’Isola delle Rose ha abbracciato in toto il primo concetto, e proprio per questo non è sopravvissuta.

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Il film funziona perché è riuscito ad accrescere il carattere visionario dell’ingegner Giorgio Rosa, facendone un sognatore deciso a giocarsi tutto per il proprio ideale assoluto di libertà, ma anche – e forse soprattutto - per amore. Eppure  persino nel corso della pellicola diventa chiara la leggerezza con cui i protagonisti si sono lanciati nell’impresa. “Abbiamo costruito un lido?!” si chiedono a più riprese, anche un po’ delusi. Su questa vicenda una decina di anni fa è stato realizzato anche un documentario, Insula de la Rozoj – La libertà fa paura (Stefano Bisulli, Roberto Naccari, 2009) che svela diversi retroscena storici. Vederlo è divertente anche per capire come la sceneggiatura di Sydney Sibilia e Francesca Manieri abbia creato molto, ma senza inventare nulla da zero.

Dalle interviste allo stesso Giorgio Rosa e ai suoi compagni emerge quella che era, in buona sostanza, una trovata commerciale: realizzare uno stato autonomo, con attività e negozi di souvenir. Una piccola San Marino, che per la verità non è mai riuscita ad aprire al pubblico.

Nel film, al contrario, il sogno non è economico. Eppure nessuno dice mai “ finalmente siamo liberi di fare questo o quello” ma piuttosto “ora non ci possono più fare nulla, siamo in acque internazionali”. La frase più iconica della pellicola, in questo senso, resta “L’abbiamo fatto perché potevamo farlo”. Si parla, insomma, di una libertà di esistere e nulla più. Cosa fare di questa libertà resta un dubbio piuttosto importante. Nel documentario del 2009, lo stesso Giorgio Rosa ammette candidamente: “La mia è un’utopia perché la libertà non esiste nel mondo. Solo se si è forti si ha la possibilità di essere liberi”.

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Un’intuizione per nulla scontata, anche dal punto di vista sociologico. Come spiega Zigmund Bauman (2007) :

“…libertà e sicurezza sono difficili da riconciliare e l’equilibrio perfetto tra loro dev’essere ancora trovato. La libertà, d'altronde, normalmente è accompagnata dall’insicurezza, mentre la sicurezza è accompagnata da limitazioni alla libertà. E poiché siamo insofferenti sia verso l’insicurezza sia verso la ‘non libertà’, difficilmente saremo soddisfatti di qualsiasi combinazione realistica tra libertà e sicurezza”.

Ecco, forse, perché l’Isola delle Rose (in particolare quella cinematografica) resterà per sempre un’utopia. Rappresenta il sogno di una libertà assoluta, senza una forza per ottenerla o proteggerla. Libertà anche da un’ideale pratico di cosa farne di questa libertà. Libertà e basta. Insomma, ancora una volta: “Lo abbiamo fatto perché potevamo farlo”.