Il virus siamo noi?
Più tempo passiamo in quarantena, e più ci rendiamo conto che questo Covid-19 arriva ad assumere dei connotati ben precisi. Non parlo tanto del virus, quanto della narrazione che gli si costruisce intorno. Dell’immaginario che virologi, politici, giornali, telegiornali, trasmissioni tv e siti web hanno via via assemblato. All’inizio, se ci pensiamo, era tutto molto più nebuloso di oggi. E non tanto perché il virus si conoscesse di meno. In fondo questo microrganismo è stato identificato già da parecchie settimane, ma nonostante ciò farmaci e vaccini dedicati sembrano ancora lontani.
Oggi, però, tutti lo raccontano nello stesso modo. Vengono usate espressioni come “minaccia invisibile”, arrivando anche a dire che quasi “ce la meritiamo”. E questo perché “negli ultimi anni ci siamo scavati la fossa da soli”, abbiamo inquinato troppo, depredato le risorse naturali e molto altro. Insomma, saremmo noi il virus. Questa narrazione della giusta punizione, però – anche se fatta con spirito costruttivo – ci porta indietro, non avanti. Del resto anche nel Medioevo vedevano la Peste come uno strumento di purificazione.
Fateci caso, ormai è quasi impossibile sentir nominare il Coronavirus senza vederlo associato a parole come guerra (per combatterlo), sacrificio (quello di chi resta a casa) ed eroe (riferito, per lo più, a medici e infermieri impegnati nei nostri ospedali). Accanto a questi termini, che richiamano una situazione straordinaria, imprevedibile e di grande precarietà per tutti, troviamo anche un altro grande riferimento. Oggi, per forza di cose, il Coronavirus è l’epidemia per eccellenza. Fino a 2 mesi fa, però, se ci avessero chiesto di associare una parola al termine “epidemia”, quasi tutti avremmo pensato alla Peste. Ora, sappiamo tutti che per quanto nefasto, il Covid-19 è infinitamente meno grave della malattia che a più riprese ha decimato l’Europa ed il mondo, nel corso della storia. Ciò nonostante continuiamo ad associare al concetto di epidemia una serie di idee che i nostri avi attribuivano alla pestilenza.
Innanzitutto quella della “minaccia invisibile”. In un mondo come il nostro, in cui la scienza pretende di spiegare e catalogare tutto, è paradossale che a tenerci in scacco sia qualcosa che non possiamo né vedere né tanto meno toccare. È il nemico peggiore che potessimo trovare. La nostra cultura è dominata dalle immagini, eppure con lo sguardo non siamo in grado di mettere a fuoco il Coronavirus. O meglio, non potremmo. Perché alla fine la nostra società, che non può accettare di non farcela, riempie i giornali e la televisioni di quelle rappresentazioni – che abbiamo visto mille volte – del Covid-19. Quella pallina, spesso di colore viola o rossa, ricoperta di punte aguzze che ormai ci è familiare. Ecco, perfetto: ora le abbiamo dato un volto. Ma non la conosciamo davvero.
L’altro modo in cui ci illudiamo di controllarlo sono i numeri. Ogni articolo di giornale trabocca di cifre, percentuali, statistiche e funzioni matematiche. Certo, ci danno un’idea di quanti casi ci siano, ma è anche vero che non sappiamo quanti test siano stati eseguiti per individuare quei positivi. Sono, insomma, dei numeri assoluti, che afferrano la realtà del virus in maniera un po’ fragile. Chissà quanti contagi ci sono stati dopo quelle rilevazioni. Chissà quanti non sono ancora positivi, ma hanno già contratto il virus. È il meglio che possiamo fare, ma non è abbastanza.
L’altro risvolto è quello della punizione. Il virus, sento ripetere sempre più spesso, ce lo saremmo addirittura meritato. E questo perché abbiamo perseguito un modello di sviluppo economico sbagliato, a spese del nostro pianeta. Oggi c’è la scienza a dircelo, con gli ecologisti e i loro scenari apocalittici per il futuro. Siamo noi ad appestare la Terra come un virus. Ed è proprio il pianeta a rivoltarsi contro di noi, creando un male capace di spazzarci via. Nel Medioevo ci pensava la religione a dire che la peste era la punizione per un mondo di peccatori. Oggi la scienza, il nuovo strumento interpretativo universale, ricade nello stesso errore.
Perché dev’esserci una motivazione morale dietro l’arrivo del Covid-19?
Nel saggio La scimmia egoista, uscito nel 2019, il biologo Nicholas P. Money è piuttosto chiaro a riguardo. Il sottotitolo dell’opera, non a caso, è “Perché l’essere umano deve estinguersi”. A suo avviso l’homo sapiens dovrebbe essere chiamato “homo narcisus”, scimmia egoista, perché persegue il proprio bene a discapito di tutto il resto: anche dell’ambiente che gli permette di vivere. In una recente intervista ammette: “La scienza è un’arma a doppio taglio: ci ha reso straordinari, ma ci ha condotti alla rovina”. Detto ciò, lui non arriva a dire che la fine sarà una sorta di rivincita della Terra sull’uomo. Faremo tutto da soli.
Guardare all’epidemia come una giusta punizione mi sembra una visione eccessivamente moralistica, che sconfina nel campo della causalità. Di chi sarebbe questa mano invisibile pronta a darci una lezione? La Terra, Dio o qualcun altro? La verità è che questa interpretazione nasconde solo un’enorme coda di paglia. Sappiamo perfettamente di dover rivedere i nostri modelli di sviluppo economico, ma anche sociale e ambientale, e ciò nonostante non abbiamo ancora fatto niente per cambiare le cose. Siamo noi l’entità che vorrebbe essere punita per questo, perché sappiamo di meritarlo.
Anziché proiettare in un gioco perverso di pestilenza medievale, espiazione dei peccati e chissà cos’altro questi meccanismi su un’entità superiore, perché non ci rimbocchiamo le maniche e basta? Facciamo sì che la scienza, E NON SOLO LEI, “ci renda straordinari – direbbe Money – e non che ci conduca alla rovina”. E questo non solo per quanto riguarda il progresso, ma anche nell’indagare il perché delle cose senza trascendere.