Città e qualità della vita, ha senso una classifica?
È di pochi giorni fa l’ennesima classifica internazionale delle città con la migliore qualità della vita, per l’occasione stilata addirittura da Lenstore (esatto, proprio il negozio di lenti a contatto online). Il report, che in quest’occasione ha incoronato Vienna, però, obbliga ad una serie di analisi. Puntualmente ciascuna di queste graduatorie tende a premiare centri della stessa area geografica ed a penalizzarne altri. Un fatto che, unito alla scelta spesso arbitraria degli indicatori di calcolo, fa dubitare dell’attendibilità di tali progetti. E se, da una parte, c’è chi da anni dubita della possibilità di rappresentare un concetto come la qualità della vita con dei semplici indici, dall’altra è inevitabile pensare che le classifiche in fin dei conti servano solo ad indispettire chi non occupa le primissime posizioni. Un po’ come le discusse classifiche musicali di Rolling Stone.
Aree geografiche, si diceva. Sì perché – salvo rari casi – la qualità della vita in queste classifiche risulta sempre altissima in precise zone. Per Lenstore nel 2022 sono le città del nord Europa (o al limite della Mitteleuropa) le migliori. Solo nelle prime 10 figurano Vienna, Copenhagen, Francoforte, Amsterdam, Helsinki, Berlino, Stoccolma e Ginevra. Difficile pensare che lo stile di vita europeo (o meglio nord-europeo), per quanto alto, non tema il confronto con nessun altra area del mondo. Al contrario nelle ultime 10 posizioni troviamo in prevalenza città americane. Qualche esempio? New York, Washington, Chicago e Boston, tra le altre. Possibile che negli slum indiani o nelle baraccopoli africane – solo per fare un esempio – si viva meglio che nella Grande Mela? Già qualcosa inizia a scricchiolare…
A tenere in piedi queste classifiche sono i cosiddetti indicatori della qualità della vita. E se Lenstore ne utilizza 10, tra cui alcuni discutibili come “il numero di locali che fanno servizio da asporto”, altri si spingono oltre. Ad esempio, il Global Liveability Index stilato ogni anno dall’Economist Intelligence Unit ne ha utilizza oltre 30, divisi in stabilità, sanità, cultura e ambiente, educazione e infrastrutture. Anche qui, però, la solfa non cambia. È ancora una volta un’area geografica a dominare la classifica 2021: in questo caso l’Oceania. Tra le prime 10 città figurano Auckland e Wellington in Nuova Zelanda e Perth, Melbourne, Adelaide e Brisbane in Australia. Dove sono finite le metropoli del nord-Europa?
Anche a livello italiano le dinamiche risultano sempre le stesse. Il Sole 24 Ore, bisogna dargliene atto, si spinge ogni anno a considerare oltre 90 indicatori per venirne a capo. Nel 2021 sul podio del bel Paese c’erano Trieste (prima), Milano e Trento. A dominare la parte alta della classifica, in questo caso, sono le città del nord: in particolare il nord-est. Male, invece, il sud che ha quasi il monopolio delle ultime piazze. A ben vedere, però, anche qui qualcosa non quadra. Per fare un esempio a Milano (che nel 2020 era prima in classifica, ha tra i suoi fiori all’occhiello il “prezzo medio delle case in vendita” (in cui domina in Italia). Per quanto riguarda i canoni di locazione, invece, occupa la posizione numero 107. Certo, avere un immobile di valore aumenta sicuramente il patrimonio di chi lo possiede (e il prestigio dell’area). Ma chi dire di chi lo deve acquistare e si trova di fronte ai prezzi più alti in Italia? Dubito che consiglierebbe agli amici di trasferirsi nella propria città. Stesso discorso per giovani, pendolari e fasce di reddito più basse che cercano una casa in affitto e si trovano di fronte ai prezzi più alti d’Italia. Secondo quale criterio prezzi altissimi e affitti da record andrebbero in direzioni opposte? Se ne deduce che l’indagine, a quanto pare, intende misurare la qualità della vita di chi è già proprietario di una casa.
Analizzando lo storico della classifica del Sole 24 Ore, tra l’altro, emerge uno strano cambiamento in questo senso. Fino al 2015 l’alto prezzo degli immobili era un indicatore negativo. Nel 2016 e nel 2017 non è stato utilizzato, mentre nel 2018 è tornato: questa volta, però, come indicatore positivo. Proprio in questo lasso di tempo (2015-2018), Trieste dal 34° al 6° posto in classifica (e oggi è al primo). La scelta degli indicatori, insomma, si rivela piuttosto rilevante.
Detto ciò, forse aveva ragione lo scrittore Erri De Luca, quando nel 2012 reagì così all’ennesimo basso piazzamento di Napoli nella classifica della qualità della vita dicendo :
“Considero qualità della vita poter mangiare ovunque cose squisite e semplici a prezzi bassi, che altrove sarebbero irreali. Considero qualità della vita il mare che si aggira nella stanza del golfo tra Capri, Sorrento e Posillipo […] Ma faciteme ‘o piacere. Per consiglio, nelle prossime statistiche eliminate Napoli, è troppo fuori scala, esagerata, per poterla misurare”
Del resto, se ognuno può scegliere i propri indicatori…
Pensandoci bene, però, classifiche di questo tipo hanno sempre avuto l’unico risultato di suscitare controversie e lamentele, non è una novità. Un po’ come le graduatorie stilate dal magazine musicale Rolling Stone: “I migliori artisti di sempre”, “I migliori chitarristi della storia”, “Le città più vivibili in Italia”. Una volta pubblicate, scattano le lamentele. Si annuncia il vincitore, sì, ma poi si parte a scorrere la graduatoria. Come si è piazzato il mio artista preferito? Com’è classificata la mia città? Perché Roma vede sempre la vetta col binocolo? Insomma, ha più da perdere chi arriva ultimo che da guadagnare chi vince. Quel che è certo è che se ne parla, e molto. Il tutto senza mai mettere d’accordo veramente nessuno. Insomma, tanto per restare a Napoli: se le città “so piezz e core”. Chi può le può giudicare oggettivamente?