Sai raccontare qualcosa senza dire quanto costa?
Divertirsi a fare i conti in tasca sia a se stessi che agli altri, si sa, è un’abitudine vecchia come il mondo. E farlo in un periodo di instabilità economica come questo, lo ammetto, può essere considerato un impulso legittimo, visti anche fenomeni preoccupanti come le recenti oscillazioni dei prezzi. A volte, tuttavia, mi rendo conto di come – parlando con alcune persone - ogni conversazione si tramuti inevitabilmente in una sorta di prezzario. Vacanze, cene, esperienze e persino amicizie vengono raccontate come un susseguirsi di spese, il cui valore qualitativo – spesso e volentieri – viene fatto coincidere con quello economico.
Ma guai a fare di ogni erba un fascio. C’è chi ne parla per sottolineare il fatto che non bada a spese e chi, al contrario, sottolinea la propria parsimonia: magari criticando quegli sconsiderati che, al contrario, non ci pensano due volte prima di acquistare qualsiasi cosa. Ciò che li accomuna è la tendenza a mettere il denaro al centro, utilizzandolo come un pericoloso metro di paragone.
Se persino nella Divina Commedia Dante colloca avari e prodighi nello stesso girone (il quarto), un motivo c’è, eccome. Tanto chi accumula quanto chi sperpera, infatti, commette l’errore di considerare il denaro come un fine, anziché un mezzo. Uno sbaglio rischioso, ricordava il sociologo Georg Simmel, perché commettendolo finiamo per ridurre ad entità “calcolabili” esperienze, relazioni e persone, svuotandole di significato proprio come se fossero merci.
Nel suo “Filosofia del denaro” (1900) il pensatore tedesco constatava, infatti, la proprietà principale del denaro: quella appunto di rendere paragonabili (e quindi scambiabili) anche merci estremamente diverse tra loro. Il denaro era, a suo avviso, “il valore delle cose, senza le cose stesse”. Un vero prodigio, insomma, se si tratta di confrontare (e quindi scegliere) tra l’acquisto di uno smartphone e di un paio di scarpe in vendita. Al contrario, diventa un problema se ad essere confrontate sono esperienze che hanno a che fare solo marginalmente col denaro.
Vi è mai capitato di spulciare tra le recensioni di un ristorante prima di andarci? Avete fatto caso a quali sono le meno affidabili? Proprio quelle che considerano il prezzo l’unico fattore degno di nota, a cui subordinare tutto il resto delle informazioni fino a renderle inutili. Leggendo commenti come “Troppo caro per quello che offre” o “Ottimo! Con quello che costa…”, è quasi impossibile farsi un’idea della qualità di piatti, atmosfera, varietà dell’offerta e servizio. E questo proprio perché si sta usando il loro prezzo per descriverne il valore. In effetti, ad una somma di denaro spesa non corrisponde sempre la stessa qualità: proprio per questo leggiamo le recensioni. Il costo medio dei piatti è indicato nel menù (o nel range di prezzo in app come Tripadvisor), ma quello che ci serve sono indicazioni sulla reale bontà delle pietanze.
Il problema, insomma, è che se in ogni conversazione i giudizi di valore diventano monetari, allora il rischio di risultare inaffidabili raddoppia. Il museo che mi consigli caldamente di visitare è quello più costoso (perché visitarlo è uno status simbol) o quello più a buon mercato (perché più conveniente)? Ogni parere finisce per rivelare il rapporto che una persona ha col denaro, non le sue reali attitudini o preferenze. Un rapporto che sicuramente dà ai soldi una posizione preponderante: che li considera, ancora una volta, un fine e non un mezzo.
A ben vedere, anche le relazioni interpersonali – commettendo lo stesso bias – si possono valutare sotto il profilo monetario. Cosa rende tale un buon amico? La sua disponibilità economica? La sua simpatia nei miei confronti nonostante le nostre differenze di status? I vantaggi che mi offre stare in sua compagnia?
Il pericolo, alla fine, è tutto qui. Come sottolineava Simmel il denaro indica certamente “il valore delle cose”, ma lo fa “senza le cose stesse”.