A lezione di mito con la serie Romulus
Raccontare un mito, quello di Romolo, trasportandolo in una narrazione il più verosimile possibile. Queste le intenzioni alla base della serie Romulus, che lo scorso venerdì si è conclusa su Sky Atlantic. Un progetto ambizioso da parte dell’ideatore e regista Matteo Rovere, che tuttavia si presta ad una serie di analisi davvero interessanti: in primis riguardo al ruolo della religione in una società primitiva come quella della Lega Latina. Nel corso della serie assistiamo ad un tentativo di integrazione – in un contesto sociale già rodato - di credenze, popoli e divinità nuovi. Un processo che poi porterà alla nascita di Roma. Scopriamo, così, tre diverse facce della religione in chiave sociologica: quella marxista, che sa essere utile alla politica dell’epoca, quella funzionalista, che serve a rinsaldare la comunità, e quella invece più legata al cambiamento. Ne emerge un ritratto delle popolazioni italiche antiche che è ben lontano dai “primitivi impauriti ed in balia della superstizione”, che siamo soliti immaginare.
Il progetto di Romulus è ambizioso, perché vuole percorrere le orme del mito al contrario. Gli antichi li inventavano a partire dalla realtà del loro tempo, o dei secoli precedenti. La serie cerca di ricostruire questa realtà, proprio a partire da tali narrazioni. Siamo in Lazio, all’incirca nell’VIII secolo avanti Cristo, e a governare sui numerosi popoli latini sono i 30 re, guidati da Numitor, sovrano di Alba Longa. La siccità ha colpito la regione, ed i governanti – interpretando questa sciagura come una punizione divina – scelgono di cacciare Numitor. Al suo posto dovrebbero governare i nipoti, i gemelli Yemos e Enitos, se non fosse che quest’ultimo viene ucciso dal fratello minore di Numitor, Amulius. La colpa viene fatta ricadere sul gemello sopravvissuto, che è costretto a fuggire. Nel frattempo Amulius diventa re e la pioggia finalmente arriva abbondante.
Già dalla premessa, la vicenda è profondamente intrisa di religione: quella politeista in salsa romana. Ci sono Giove, Vesta e Marte, ad esempio. I protagonisti interpretano la realtà, cercando di leggere delle volontà divine in tutto ciò che accade. Il punto, però, è che lo fanno con un occhio costantemente rivolto al proprio tornaconto. Ci credono sì, ma se gli fa anche comodo crederci, allora è ancora meglio.
Di fronte alla cosiddetta esperienza del caso, ovvero all’apparente insensatezza del mondo, e all’esperienza del limite, ovvero alla morte e alla potenza limitata dell’uomo, allora arrivano gli dei a rimettere un po’ di ordine. Perché non piove? Gli dei ci stanno punendo. Arriva la pioggia? Finalmente tutto si è sistemato. Eppure di per sé il tempo atmosferico non ha alcun significato morale intrinseco.
E poco importa agli altri 30 re latini se tutto ciò ha portato alla cacciata di Numitor, re saggio, pacifico e benvoluto da tutti. L’importante è che il potere rimanga a loro, e che il raccolto sia abbondante. Ecco l’interpretazione marxista della religione. Le credenze vengono interpretate in modo che il potere resti, per lo più, nelle mani degli stessi.
Ad unire i re latini, poi, è innanzitutto la venerazione per le stesse divinità, Giove, Vesta e Marte su tutti. E allo stesso tempo l’odio e il timore per altre, come Rumia. Questa lupa, dea dei boschi, crea un vero spauracchio nella popolazione. In questo caso la condivisione degli stessi miti può essere interpretata in maniera funzionalista. Avere gli stessi dei fortifica il legame tra popoli che hanno poco in comune e vivono separati. Allo stesso tempo tiene alla larga coloro che non ne fanno parte, ovvero coloro che adorano Rumia e vivono nei boschi. “Le divinità adorate – direbbe Emil Durkheim – sono la società stessa personificata”.
La religione però, può essere anche cambiamento, come insegna Max Weber. Un esempio tipico di questo fatto sono le credenze che hanno a che fare con le profezie. “Così sta scritto, ma io vi dico…” è la tipica espressione con cui tutto può essere rimesso in discussione da un profeta. E così avviene anche in Romulus, almeno in due occasioni.
***INIZIO SPOILER***
Quando Yemos propone di integrare tra i latini la popolazione dei boschi, la sua proposta è chiara: continuare ad adorare tutte le solite divinità pagane, aggiungendo anche Rumia. Questo atto, peraltro, è anche funzionale all’aiuto del popolo dei boschi nella battaglia per recuperare il trono di Alba. In soldoni “La dea lupa è sempre stata disprezzata, ma possiamo vivere anche con chi la venera…” (e peraltro ci conviene).
***FINE SPOILER***
Nella serie, poi, si scopre che un tempo i re Latini erano nemici tra loro a unirli è stato un presagio: il ritrovamento di una Scrofa che aveva partorito 30 piccoli. Il segno che i 30 popoli latini erano tutti fratelli. Da quel momento tra loro è nata un’alleanza. Anche in questo caso la rivelazione ha portato ad un cambiamento, ma perfettamente utile alla causa. Essere amici, infatti, rendeva i 30 popoli più forti rispetto alla rivalità precedente.
Insomma, la serie Romulus voleva trasformare il mito in storia ed è riuscita a farlo con successo perché ha saputo intrecciare religione, società e politica su vari livelli. Esattamente quello che la storia ha sempre fatto per conto proprio, prima che qualcuno – col procedimento contrario – la trasformasse in mito. Perché raccontare i cambiamenti significa anche comprenderne le dinamiche.