La retorica del perdente tra Zerocalcare e Sorrentino

Da secoli la retorica del perdente (o del vinto) accompagna le narrazioni artistiche in ogni loro forma. Dalla poetica di Baudelaire al ciclo letterario dei vinti di Giovanni Verga, fino ad arrivare al neorealismo cinematografico, prima, e al grunge nella musica, poi, questo è un filone che non si arresta neppure oggi. Si può dire che da quando l’uomo moderno ha iniziato a riflettere su se stesso utilizzando l’arte, lo ha fatto anche attraverso la retorica del perdente. Una vera e propria rassegnazione di fondo, questa, figlia di precise dinamiche sociali e storiche, che ammette in tutta onestà: “Non importa quanto tu ci possa provare, non ce la farai”. A fare cosa? Beh questo è un concetto piuttosto ampio. A seconda dell’opera, di fatto, assume forme diverse. Ad inserirti attivamente nella società, a sviluppare relazioni interpersonali di qualità, ad affermarti in un determinato ambito. E chi più ne ha più ne metta.

La serie animata “Strappare lungo i bordi” di Zerocalcare e il film “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino sono solo due esempi molto recenti che si rifanno, in maniera diversa, a questa tradizione. Tra le due opere, però, ci sono una serie di differenze determinanti, che possono aiutarci a comprendere come e quando la retorica del perdente si riveli costruttiva o meno.

Tale narrazione ha in sé un enorme fascino, poiché nobilita la figura dell’antieroe, del outsider, di colui che non si ritrova nei valori della propria società. Un fattore che provoca innanzitutto identificazione. Chi non ha amato la musica e l’attitudine da anti-divo di Kurt Cobain e dei suoi Nirvana, ad esempio? Quando in “Smells like teen spirit” cantava:

“Sono il peggiore a fare quello che faccio meglio”

 

Chi non si è sentito vicino ai poeti maledetti e al loro padre spirituale Charles Baudelaire, quando si paragonava ad un albatros, maestoso in cielo ma goffo e vessato dai marinai che lo hanno catturato a terra?

“Il Poeta è come lui, principe delle nubi

Che sta con l’uragano e ride degli arcieri;

Esule in terra fra le grida di scherno,

Le sue ali da gigante gli impediscono di camminare”

 

Narrazioni di questo tipo, per quanto disfattiste, risultano comunque consolatorie. Parlano di sofferenza e alienazione, certo, ma non ti fanno sentire solo. Insegnano, in qualche modo, che è giusto non essere perennemente felici, ottimisti e d’accordo col prossimo.

 Con la retorica del perdente l’artista si chiama fuori dalla società. Esercita un rottura rispetto a parte della cultura mainstream. Insomma, ammette di essere “quello diverso”.

Tuttavia le narrazioni di questo genere non sono tutti uguali. Artisti e opere hanno inevitabilmente livelli di profondità e analisi molto diversi tra loro. Alcuni arrivano a prendere atto “di essere dei perdenti” ma non si spingono oltre. Finiscono, così, per risultare solo autoindulgenti e per normalizzare questa condizione, senza tuttavia fornire strumenti aggiuntivi per prendere atto della propria “sconfitta” ed eventualmente riscattarsi.

È questo, probabilmente, l’unico difetto dell’ottima serie Netflix di Zerocalcare “Strappare lungo i bordi”. In questa, esilaranti spunti comici e un buon intreccio narrativo hanno come contraltare una retorica del perdente spesso generalizzata, come quando Zero non riesce a decidere cosa guardare su Netflix, perché le serie migliori le tiene per “una sera in cui me pija bene” (che in un’esilarante spezzone si scopre non arriverà mai). Un piccolo indicatore di un sentimento diffuso un po’ in tutta la serie. Persino la metafora dei fili d’erba che lega tutta la storia suona sì come una rassicurazione, ma in parte anche come un invito alla resa:

“Ma non ti rendi conto di quanto è bello, che non porti il peso del mondo sulle spalle e sei soltanto un filo d’erba in un prato? Non ti senti più leggero?”

Il successo di “Strappare lungo i bordi” forse ci dice molto sullo “spirito del mondo” di oggi. Una retorica del perdente di questo genere, del resto, è molto diffusa non solo nell’arte, ma anche sui social. Su Instagram, Facebook e Tiktok la narrazione del “Che ansia”, “Dimmi che è lunedì senza dirmi che è lunedì” e “Mai una gioia” hanno dato vita a enormi filoni comici di meme e video virali. Spunti certamente ironici, se presi singolarmente, ma indicativi di un malessere generalizzato.

Il punto è che quando diventiamo tutti perdenti, vinti e outsider, forse la verità è che nessuno di noi lo è per davvero. O probabilmente l’esserlo è parte integrante della vita. Un messaggio, questo, che accompagna un’altra narrazione del perdente di questi mesi: “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino.

Il protagonista, Fabietto Schisa, è certamente un outsider, ed è consapevole della sua condizione quando ammette:

 “La realtà non mi piace più. La realtà è scadente

Tuttavia Sorrentino non lo abbandona in balia di questo grigiume, non lo lascia crogiolare nella tristezza dell’impossibilità di farcela. O nella consapevolezza di essere “un filo d’erba” di cui non importa a nessuno. E non lo fa neppure diventare un vincente, uno che finisce per affermarsi economicamente o socialmente. Sfruttando le sfumature a lui tanto care, dipinge una realtà che non è bianca o nera. La sua risposta passa attraverso la sensibilità. Il saper trovare nel mondo le cose che lo rendono eccezionale, anche negli angoli più impensabili. Un amico fuori dagli schemi, una madre con una vena di follia, un calciatore geniale (Maradona) che trascende il proprio sport. Qualcosa che, direbbe Zerocalcare, “Te faccia pija bene”, rendendoti sì un vinto, ma che a un certo punto sceglie di giocare secondo le proprie regole.