Frontiere liquide in database solidi: oggi come nel Seicento
Solo qualche anno fa, il sociologo Zygmund Bauman sottolineava come esse avessero perso il loro primato nei controlli dei flussi di persone. Ma quando erano tutto ciò che si frapponeva tra due paesi?
“Polizia francese, Maastricht, Unione Europea, migranti, dazi”. Forse, fino a qualche anno fa, anche “dogana”. Queste sono, probabilmente, le prime associazioni che facciamo non appena sentiamo il termine “frontiera”. Di certo un luogo di transizione, attraverso il quale si procede verso una destinazione “altra”, in qualche modo, rispetto a quella di origine. Solo qualche anno fa, il sociologo Zygmund Bauman sottolineava come esse avessero perso il loro primato nei controlli dei flussi di persone, a favore delle tecnologie di sorveglianza che agivano all’origine di tali fenomeni. Definita questa prassi “Ban-Opticon”, facendo un gioco di parole intorno al concetto di “Panopticon” di Bentham (da “ban”=escludere), lo studioso francese Didier Bigo sottolineava come questa sorveglianza finalizzata all’esclusione si basasse su tre punti:
Poteri eccezionali nell’ambito delle società liberali
Profilazione degli esclusi
Normalizzazione dei gruppi non esclusi
Del resto non è difficile riconoscersi in queste tre caratteristiche. Oggi muoverci liberamente in Europa è diventata una cosa fin troppo scontata, così come lo è, spesso, ottenere un visto per gli USA. Eppure, al momento di richiedere quest’ultimo, basta aver fatto un viaggio qualsiasi in medio oriente o in Russia, anche solo per turismo, per accorgersi di quanto sia facile finire nel gruppo dei cosiddetti “esclusi”. Stessa cosa quando si richiede il visto per l’India, ma si è già stati in Pakistan. Insomma, oggi le frontiere vere e proprie tra paesi, anche grazie alla diffusione dei trasporti aerei e alla profilazione dei viaggiatori, sembrano essere semplicemente l’ultimo filtro di un processo di controllo che inizia ancora prima di intraprendere il viaggio. Tutto ciò anche se fatti come quello di Bardonecchia ci fanno ricredere, talvolta.
E quando le frontiere erano tutto ciò che si frapponeva tra due paesi, magari perennemente in guerra tra loro? Per converso si sarebbe portati a pensare che fossero sede della maggiore dispiegazione di forze e di controlli. Certo, questo poteva essere vero nel novecento, ma all’alba della nascita della modernità (e del suo concetto di stato) la situazione era ben diversa. Leggendo un interessante saggio dello storico polacco Antoni Maczak, intorno alla condizione del viaggiatore dell’Europa moderna (tra 500 e 600) ci si rende immediatamente conto che le frontiere erano qualcosa di completamente diverso rispetto a oggi. Innanzitutto “…i paesi dove vigevano severe leggi tributarie o la censura religiosa sui libri stampati. Solo in questi paesi veniva esercitato un controllo più o meno rigido dei bagagli…”. Potremmo identificare queste particolari casistiche in Spagna, Inghilterra e Paesi Bassi, che erano in guerra tra loro, senza dimenticarci della stessa inquisizione spagnola, tanto cara ai Monty Python.
Ad ogni modo, ciò che colpisce di più è la mancanza di uniformità di trattamento, tra i vari dei racconti dei viaggiatori. Tornando da Venezia verso Vienna un inglese, ad esempio, raccontava:
“Nonostante che anche qui ci siano diverse nazioni e si parlino lungo la strada non meno di quattro lingue, nessuno mi ha disturbato, nessuno mi ha chiesto donde venissi…”.
Una favola, anche in termini di sicurezza, peccato che nello stesso periodo un viaggiatore polacco scrivesse: “A Pontebba (Udine) siamo stati a pranzo e qui è già la fine del trattamento veneziano, e allora anche del bel vivere, poiché spingendoci sempre più verso le terre germaniche abbiamo avuto abbastanza disagi, e abbiamo dovuto pagare inauditamente caro”. La situazione, passando da uno staterello italiano ad un altro, al contrario, era sorprendentemente quasi unitaria . Un turista: “…entrava o lasciava in continuazione uno degli staterelli, scorgendo però tra questi più somiglianze che differenze”. Qui cinematograficamente ci spostiamo verso Non ci resta che piangere, col suo insistente doganiere che ripeteva: “Un fiorino!” qualsiasi cosa gli si dicesse. Anche dove gli stati confinavano, i cittadini sapevano perfettamente a chi pagassero le proprie tasse, tuttavia le segnaletiche erano quasi ridicole: uno stemma nobiliare su un pozzo a qualche chilometro dal confine, ad esempio. Uno studioso-viaggiatore si preoccupò addirittura di classificare i vari tipi di confini, cercando di creare una guida per turisti: in Francia individuò alberi e massi come segni distintivi di alcune province. C’erano, comunque, due frontiere, che riservavano un passaggio davvero scenografico al viaggiatore. Alle porte del Regno di Napoli, provenendo da nord, un’incisione in latino sulla pietra recitava:
“O tu che giungi! Ecco i confini del regno di Napoli. Se vieni da amico, troverai tutto in pace e con buone leggi anche il buon costume”.
Molto simile a questa era la frontiera tra l’impero asburgico e quello ottomano: “Dalla parte cristiana ci sono le aquile bicipiti. Sul petto hanno uno scudo bianco con la croce rossa e la scritta: “vinci sotto questo segno”. […]dalla parte turca stanno due pali con le mezzelune” e una scritta che significava qualcosa come “fino a riempire il mondo intero”. Esempi di propaganda che…nemmeno con la guerra fredda.
Una dogana (in basso) alle porte di Napoli
Certo, stiamo parlando degli albori della modernità, quando il concetto weberiano di burocrazia non era ancora stato neppure lontanamente concepito. Restava quindi, non agli stati ma addirittura ai funzionari di frontiera stessi, decidere se e come comportarsi con i viaggiatori. Vi erano, comunque, documenti indispensabili, soprattutto in Italia. Sono proprio questi a farci capire quale fosse, probabilmente, l’aspetto della vita quotidiana che più preoccupava i funzionari del seicento. I bollettini di sanità erano alla base del transito da uno staterello italiano all’altro: l’unico modo di dimostrare la propria estraneità a pestilenze ed epidemie varie nei paesi visitati (al tempo diffusissime). Solo con questi si ottenevano permessi d’entrata e lettere di raccomandazione per essere tutelati in terra straniera, proprio come avviene oggi con la richiesta del nostro “storico viaggi”, al momento di chiedere i visti sul passaporto. Torna in mente anche a voi il “ban-opticon” da cui siamo partiti?
E quando le frontiere erano tutto ciò che si frapponeva tra due paesi, magari perennemente in guerra tra loro? Per converso si sarebbe portati a pensare che fossero sede della maggiore dispiegazione di forze e di controlli. Certo, questo poteva essere vero nel novecento, ma all’alba della nascita della modernità (e del suo concetto di stato) la situazione era ben diversa. Leggendo un interessante saggio dello storico polacco Antoni Maczak, intorno alla condizione del viaggiatore dell’Europa moderna (tra 500 e 600) ci si rende immediatamente conto che le frontiere erano qualcosa di completamente diverso rispetto a oggi. Innanzitutto “…i paesi dove vigevano severe leggi tributarie o la censura religiosa sui libri stampati. Solo in questi paesi veniva esercitato un controllo più o meno rigido dei bagagli…”. Potremmo identificare queste particolari casistiche in Spagna, Inghilterra e Paesi Bassi, che erano in guerra tra loro, senza dimenticarci della stessa inquisizione spagnola, tanto cara ai Monty Python.
Ad ogni modo, ciò che colpisce di più è la mancanza di uniformità di trattamento, tra i vari dei racconti dei viaggiatori. Tornando da Venezia verso Vienna un inglese, ad esempio, raccontava:
“Nonostante che anche qui ci siano diverse nazioni e si parlino lungo la strada non meno di quattro lingue, nessuno mi ha disturbato, nessuno mi ha chiesto donde venissi…”.
Una favola, anche in termini di sicurezza, peccato che nello stesso periodo un viaggiatore polacco scrivesse: “A Pontebba (Udine) siamo stati a pranzo e qui è già la fine del trattamento veneziano, e allora anche del bel vivere, poiché spingendoci sempre più verso le terre germaniche abbiamo avuto abbastanza disagi, e abbiamo dovuto pagare inauditamente caro”. La situazione, passando da uno staterello italiano ad un altro, al contrario, era sorprendentemente quasi unitaria . Un turista: “…entrava o lasciava in continuazione uno degli staterelli, scorgendo però tra questi più somiglianze che differenze”. Qui cinematograficamente ci spostiamo verso Non ci resta che piangere, col suo insistente doganiere che ripeteva: “Un fiorino!” qualsiasi cosa gli si dicesse. Anche dove gli stati confinavano, i cittadini sapevano perfettamente a chi pagassero le proprie tasse, tuttavia le segnaletiche erano quasi ridicole: uno stemma nobiliare su un pozzo a qualche chilometro dal confine, ad esempio. Uno studioso-viaggiatore si preoccupò addirittura di classificare i vari tipi di confini, cercando di creare una guida per turisti: in Francia individuò alberi e massi come segni distintivi di alcune province. C’erano, comunque, due frontiere, che riservavano un passaggio davvero scenografico al viaggiatore. Alle porte del Regno di Napoli, provenendo da nord, un’incisione in latino sulla pietra recitava:
“O tu che giungi! Ecco i confini del regno di Napoli. Se vieni da amico, troverai tutto in pace e con buone leggi anche il buon costume”.
Molto simile a questa era la frontiera tra l’impero asburgico e quello ottomano: “Dalla parte cristiana ci sono le aquile bicipiti. Sul petto hanno uno scudo bianco con la croce rossa e la scritta: “vinci sotto questo segno”. […]dalla parte turca stanno due pali con le mezzelune” e una scritta che significava qualcosa come “fino a riempire il mondo intero”. Esempi di propaganda che…nemmeno con la guerra fredda.
Una dogana (in basso) alle porte di Napoli
Certo, stiamo parlando degli albori della modernità, quando il concetto weberiano di burocrazia non era ancora stato neppure lontanamente concepito. Restava quindi, non agli stati ma addirittura ai funzionari di frontiera stessi, decidere se e come comportarsi con i viaggiatori. Vi erano, comunque, documenti indispensabili, soprattutto in Italia. Sono proprio questi a farci capire quale fosse, probabilmente, l’aspetto della vita quotidiana che più preoccupava i funzionari del seicento. I bollettini di sanità erano alla base del transito da uno staterello italiano all’altro: l’unico modo di dimostrare la propria estraneità a pestilenze ed epidemie varie nei paesi visitati (al tempo diffusissime). Solo con questi si ottenevano permessi d’entrata e lettere di raccomandazione per essere tutelati in terra straniera, proprio come avviene oggi con la richiesta del nostro “storico viaggi”, al momento di chiedere i visti sul passaporto. Torna in mente anche a voi il “ban-opticon” da cui siamo partiti?